Immunoterapia nei tumori pediatrici: in molti casi la cura definitiva è vicina

ROMA, 14 NOVEMBRE 2017 – I tumori pediatrici, per fortuna, sono rari, anche se purtroppo ogni singolo caso rappresenta una dura prova per ogni famiglia colpita. Airtum, l’Associazione italiana registri tumori, stima che per il quinquennio 2016-2020, in Italia, saranno diagnosticate settemila neoplasie tra i bambini e quattromila tra gli adolescenti, in linea con il quinquennio precedente. «Si registra più o meno unincidenza di 180 casi per milione di soggetti lanno, quindi possiamo affermare che il tumore pediatrico sia raro» conferma Franco Locatelli, direttore del Dipartimento di Oncoematologia e Medicina Trasfusionale dellOspedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma e co-presidente del simposio internazionale Innunotherapy of childhood cancersvoltosi recentemente a Roma e promosso dalla Fondazione Internazionale Menarini. Quel che è decisamente cambiato, negli ultimi quarant’anni, è il tasso di mortalità, che è in netta diminuzione. I bambini e i ragazzi tra 0 e 19 anni che muoiono di tumore sono sempre meno: negli ultimi anni i decessi sono stati circa un terzo di quelli registrati nei primi anni Settanta. Sono i tumori del sangue (e in particolare le leucemie) a mostrare i successi maggiori con una sopravvivenza che in alcuni casi oggi supera il 90% dei casi. Il merito è largamente attribuibile all’uso della chemioterapia secondo schemi ben definiti, con un approccio messo a punto grazie alla cooperazione internazionale fra oncologi pediatri. Ai successi di questa tecnica si aggiunge il trapianto di midollo, di cui i medici italiani sono stati promotori e pionieri. «Risultati ottenuti anche grazie allimmunoterapia antitumorale, un insieme di approcci terapeutici altamente innovativi e sofisticati che consentono il trattamento di neoplasie attivando e potenziando il sistema immunitario del paziente, inducendolo ad attaccare le cellule neoplastiche» aggiunge Lorenzo Moretta, direttore del Dipartimento di Laboratori e Diagnostica Immunologica dellOspedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma e co-presidente del simposio.

Tra gli argomenti del simposio, da segnalare soprattutto le nuove tecniche di trapianto di cellule staminali emopoietiche da genitore per combattere i tumori del sangue. Per tanti anni, lunico donatore impiegato è stato un fratello o una sorella immunogeneticamente compatibile con il paziente. Ma la possibilità che due fratelli siano identici tra loro è solamente del 25%. Per ovviare a questa limitazione, sono stati creati i Registri dei Donatori Volontari di Midollo Osseo che arruolano ormai più di 29 milioni di donatori e le Banche di Raccolta e Conservazione del Sangue Placentare, le quali rendono disponibili circa 700.000 unità nel mondo. A dispetto di questi numeri, esiste un 30-40% di pazienti che non trova un donatore idoneo o che ha unurgenza di essere avviato al trapianto in tempi non compatibili con quelli necessari a identificare un donatore al di fuori dellambito familiare. «Con lo scopo di rispondere a questa urgenza terapeutica, negli ultimi ventanni si è investito molto nellutilizzo di uno dei due genitori come donatore di cellule staminali emopoietiche» prosegue Moretta. «Tuttavia, lutilizzo di queste cellule senza alcuna manipolazione rischia di causare gravi complicanze, potenzialmente fatali, correlate alla procedura trapiantologica stessa. Per questo motivo, fino a pochi anni fa, si utilizzava un metodo di purificazionedi queste cellule che garantiva una buona percentuale di successo del trapianto (attecchimento) ma che, sfortunatamente, si associava a un elevato rischio infettivo, soprattutto nei primi mesi dopo il trapianto, con unelevata mortalità. Come risultato finale, i trapianti da uno dei due genitori avevano una probabilità di successo significativamente inferiore a quella ottenibile impiegando come donatore un fratello o una sorella, oppur un soggetto identificato al di fuori dellambito familiare».

Negli ultimi anni, i ricercatori dellOspedale Bambino Gesù hanno dedicato i loro sforzi a mettere a punto una nuova tecnica di manipolazione delle cellule staminali che permette di eliminare le cellule pericolose (linfociti T alfa/beta+), responsabili dello sviluppo di complicanze legate allaggressione da parte di cellule del donatore sui tessuti del ricevente (Graft versus host disease), lasciando però elevate quantità di cellule buone (linfociti T gamma/delta+, cellule Natural Killer), capaci di proteggere il bambino da infezioni severe e dalla ricaduta di malattia.

«I risultati ottenuti dimostrano come il rischio di mortalità da trapianto è straordinariamente basso (nellordine del 5%), il rischio di ricaduta di malattia è del 24% e, conseguentemente, la probabilità di cura definitiva per questi bambini è superiore al 70%, un valore sovrapponibile (anzi lievemente migliore) a quello ottenuto nello stesso periodo in pazienti leucemici trapiantati da un donatore, familiare o non consanguineo, perfettamente compatibile» spiega Locatelli. Inoltre, il rischio particolarmente basso di sviluppare complicanze a breve e lungo termine correlate al trapianto ottenuto grazie a questo nuovo approccio metodologico, rende questa procedura un traguardo solo pochi anni fa impensabile e una realtà potenzialmente applicabile a centinaia di altri bambini nel mondo.

E la ricerca non si ferma qui. La prossima frontiera riguarda lindividuazione di nuove strategie per attaccare altri tipi di tumori. «Al Bambino Gesù abbiamo sviluppato due trial accademici che abbiamo sottoposto allAifa, lAgenzia Italiana del farmaco, uno per le leucemie linfoblastiche acute, laltro per il neuroblastoma, il tumore solido più frequente in età pediatrica» annuncia Locatelli. La sfida di trasferire le conoscenze scientifiche e i trattamenti innovativi dalle neoplasie ematologiche ai tumori solidi è appena cominciata.

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